Sono tre i quesiti che erano stati posti dai referendum promossi dalla CGIL: quello non ammesso dalla Corte Costituzionale riguardante la possibilità di reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (attualmente è previsto solo un risarcimento economico), la cancellazione dei voucher e, infine, l’abrogazione delle norme che limitano le responsabilità delle aziende committenti nei confronti dei lavoratori delle ditte appaltatrici.
Nel frattempo, il Governo ha approvato il cosiddetto “Decreto anti referendum”, un provvedimento che, da un lato, cancella sia i buoni lavoro voucher, dall’altro ripristina integralmente la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori per garantire le tutele dei lavoratori. La CGIL canta vittoria: la segretaria Camusso parla di “un grande risultato visto che quello tracciato dal decreto è esattamente l’obiettivo che si siamo proposti con i quesiti referendari”.[1] Insomma, sembrerebbe proprio essere stato un gioco delle parti, con un sindacato che scrive male il referendum più importante in modo che venga bocciato ed il governo che evita anche quella minima mobilitazione che avrebbe comportato la tornata referendaria. Faremo però finta che non sia stato questo il finale della storia e ragioniamo, in generale, sullo strumento referendario come mezzo di lotta sindacale.
La prima ed inevitabile obiezione che ci viene da fare è che un sindacato – specie un sindacato di dimensioni importanti – se veramente intende opporsi a leggi e regole che ritiene inique, ha innanzitutto il dovere di scendere sul piano della mobilitazione e, attraverso l’arma dello sciopero, lottare concretamente. Ci vuole di certo la forza per mettere in atto tale percorso, ma prima ancora è indispensabile la volontà.
Nel passato, quando la CGIL ha voluto mobilitarsi, ha ottenuto delle vere e proprie marce indietro del governo. A cosa fu dovuta quella mobilitazione? Forse Cofferati, giunto a sei mesi dalla fine del suo mandato, dopo i disastri combinati durante la sua gestione, voleva lasciare un ricordo in positivo di sé? O forse, invece e più realisticamente, si trattava di opporsi ad un governo avverso, quello di centro-destra guidato da Berlusconi, per cui era più facile trovare l’unità e la carica necessarie a sviluppare una forte opposizione?
Tutto ciò dimostra che, se si vuole, si può fare. Certo è che con i governi di centro-sinistra passano le peggiori porcherie senza trovare una reale resistenza. Diversamente è avvenuto in Francia dove, pure con un governo di sinistra che ha voluto imporre leggi fac-simile alle nostre sul piano della precarizzazione del lavoro, c’è stata una fortissima mobilitazione da una parte di forze sindacali e sociali. Un movimento di intensità tale da far tremare il governo Hollande. Anche se non saremo mai sicuri della vittoria finale, siamo però certi che i semi gettati dalla resistenza germoglieranno e, soprattutto, saranno utili a mandare un forte segnale al potere che certi limiti non si possono superare.
Dalle nostre parti la CGIL, assieme alla CISL e alla UIL, mentre il governo Renzi faceva passare il Jobs Act e la cancellazione dell’art. 18, non andavano oltre a qualche comunicato di protesta o a qualche scioperetto, quasi ad assicurare il governo sul fatto che non c’era reale volontà di opposizione. Pertanto la trovata del referendum è servita solo a rifarsi il trucco dalle figuracce e a creare un alibi verso i propri iscritti, sempre più delusi. Ho l’impressione che, quando la consulta ha depennato dal referendum il quesito per il ripristino dell’art. 18, i vertici della CGIL abbiano tirato un sospiro di sollievo. Su quello, difficilmente il governo avrebbe ceduto così facilmente.
Il referendum poi – di là della “vittoria” attuale – rappresenta sempre un salto nel buio; sui temi del lavoro, inoltre, è più facile rischiare una sconfitta perché certe tematiche, sottoposte al giudizio dell’opinione pubblica, sono spesso considerate minoritarie. Perfino il PCI di Berlinguer subì una clamorosa sconfitta quando decise di proporre il referendum sulla legge del governo Craxi che stabiliva la riduzione dell’incidenza dei punti della scala mobile (nel 1992 venne abolita del tutto con l’accordo dei sindacati confederali). Anche il referendum promosso da Rifondazione Comunista per l’estensione dello statuto dei lavoratori sotto i 15 dipendenti non ebbe esito migliore. Quando si perde un referendum, è difficile rimettere in discussione gli stessi temi. Insomma, è un’arma molto rischiosa.
Tornando a questa tornata referandaria erano, come dicevamo, rimasti di fatto due quesiti: la questione dei voucher e quella degli appalti. Sulla prima questione c’è poco da dire, tanto evidente è l’aspetto di copertura del lavoro nero che questo sistema comporta. Rispetto al secondo tema dobbiamo rilevare che la normativa che regola gli appalti non ha mai trovato reale opposizione da parte della CGIL e degli altri sindacati confederali. Questo né su un piano generale, né su quello aziendale, dove il fenomeno dell’esternalizzazione di interi settori – sia nel privato sia nel pubblico – rappresenta una piaga che si allarga sempre più. I sindacati confederali hanno interiorizzato l’idea che l’aumento della competitività, a scapito dei diritti di lavoratori e lavoratrici, determinando una riduzione dei costi aziendali, è utile allo sviluppo economico e al benessere generale (oltre a permettere a tali sindacati di mantenere le condizioni di privilegio acquisite all’interno delle aziende). Sia i politici che fanno le leggi che i sindacati confederali sanno benissimo che gli appalti e il sub-appalto, pur aumentando i costi dell’azienda per via della mediazione, portano una notevole convenienza grazie al sistema schiavistico e di ricatto sui lavoratori, costretti a carichi di lavoro estenuanti. Ad ogni scadenza del contratto tra l’appalto e l’azienda committente c’è una gara che si fonda su un solo indicatore, quello dell’offerta del minor costo, che non considera né le condizioni di lavoro né il mantenimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Le imprese che sono in grado di offrire un costo nettamente inferiore rispetto alle altre si rifanno riducendo le ore pagate ai dipendenti e/o ricorrendo a licenziamenti e/o riducendo loro parte del salario. Si consideri, inoltre, che la maggior parte dei contratti di categoria non prevedono l’obbligatorietà dell’assunzione dei dipendenti nel cambio dell’appalto.
Proprio in questo ultimo periodo è stato rinnovato il contratto dei metalmeccanici e i firmatari, FIOM-FIM-UILM, si sono ben guardati dall’introdurre, nel rinnovo degli appalti, tali garanzie. Se certe questioni non vengono risolte in occasione del rinnovo contrattuale, allora quando? Non certamente con il referendum: “ma mi faccia il piacere” direbbe Totò.
Ciò che avviene nel settore della logistica è altrettanto eloquente: le grandi aziende dei supermarket appaltano il trasporto delle merci a pseudo-cooperative – spesso in mano alla mafia – che non rispettano i termini dei contratti di lavoro e che utilizzano mano d’opera a maggioranza composta da migranti, sottoposti al ricatto del rinnovo del permesso di soggiorno. In questo settore si sono sviluppate lotte molto forti che ben conosciamo.
Quale reale risposta è possibile, di là del parziale mutamento della normativa? La lotta, la mobilitazione. È necessario invertire la rotta che ha portato all’attuale deriva, alla logica dell’esternalizzazione che affida all’appalto settori di produzione con l’unico scopo di dividere i lavoratori, togliendo loro diritti per renderli vulnerabili ai meccanismi dello sfruttamento. Per fare questo percorso a ritroso ci vuole anzitutto la massima unità dei lavoratori e delle lavoratrici e la consapevolezza che questo processo di decentramento e di disgregazione porta solo guadagno al padronato ed ha rappresentato una delle principali cause della lunga crisi in cui ci troviamo impantanati (crisi che ha colpito la classe lavoratrice e i settori deboli della società). Occorre rivendicare la necessità, come si faceva un tempo, che le esternalizzazioni e gli appalti rientrino nell’azienda madre e opporsi con forza per impedire nuove esternalizzazioni sia nel settore pubblico che nel privato. Occorre creare un fronte unitario tra i lavoratori e le lavoratrici dell’azienda committente e i dipendenti degli appalti. Occorre rivendicare l’assunzione di tutti i dipendenti quando si verifica un cambio di appalto, garantendo equanimità di diritti tra i dipendenti della ditta appaltatrice e quelli dell’azienda committente, fino a contrastare la perversa logica del rinnovo dell’appalto: il contratto tra le parti dev’essere a tempo indeterminato. L’azienda madre deve rispondere in prima persona delle inadempienze dell’appalto e la rappresentanza sindacale dei lavoratori dell’azienda committente e di quelli degli appalti deve essere unitaria. Il ricorso all’appalto non deve risultare conveniente, perché l’obbiettivo che va posto è quello di scoraggiare nuove esternalizzazioni e rendere più facile il rientro dell’appalto. Tutto ciò può essere reso possibile attraverso un impegno reale ed unitario di lotta.
Enrico Moroni
NOTE
[1] http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2017/03/16/voucher-parlamento-vota-per-abrogarli_4a67d202-1ee4-42d7-a0ff-8ff211ebe81c.html